Ogni atto di un artista è un autoritratto. Non possiamo creare nulla di ciò che non siamo. Per me, l’arte è un mezzo di catarsi, un processo di guarigione che deve passare dalla confessione per rivelarsi e prendere forma. Non è una biografia ne una patobiografia, nelle esperienze che voglio raccontare cerco sempre l’universalità. Non per farmi riconoscere, ma per riconoscermi. Indago in un inconscio collettivo cercando di trovare me stessa. Ovviamente non posso che parlare attraverso il femminile, essendo io donna, ma utilizzando figure ermafrodite, o senza sesso. Le tematiche che mi porto appresso sono però prevalentemente femminili: la sensazione del proprio corpo, la sua aura, la sua violazione, il potere generativo di creazione. L’unione di due che danno respiro a un Uno vivente è ciò che più mi affascina. Il disequilibrio di due opposti che assurdamente si uniscono, dando vita ad un terzo elemento equilibrato. In questo concetto ritrovo il divino.

Un proesso alchemico di trasformazione della forma e della psiche. L’Utero è athanor nel quale la forma nasce, si determina come esistente. Il feto, nel suo essere incompiuto, atto in potenza, figlio degli opposti, è la forma principe. Forma che prende corpo e intenzione in un caldo buio aspaziale e atemporale, cosciente di qualcosa che si trova al di là del proprio conosciuto. Le forme nate da questa intenzione si trovano strette in sè stesse, evaporano e si ricompongono in una lotta di contorsione, fluttuanti in uno spazio vuoto dove l’autodeterminazione può compiersi e trovare energia vitale. Anti-forma che diviene forma. 

L’essere deboli, fragili, appena percepibili, leggeri ed eterei come una traccia di carbone, rischiando di essere spazzati via dalla noncuranza del mondo. Vivere appena sotto il peso della coscienza che allappa ed ingloba, che incastra in circonvoluzioni senza fine di vita-morte, nascita-crescita-distruzione, caos di attriti che scontrandosi e lottando generano meravigliosa forma e carne. Disperatamente legarsi per non sparire.