Aleksandar Stamenov
Entrai in contatto con il talento di Flaminia Verdoni già durante il primo anno d’Accademia, a Roma. I suoi disegni su taccuino (i quali alcune volte dovevo insistere per vedere), non sembravano avere per lei il valore che invece già meritavano; venivano trattati alla stregua della messa su carta di vaghi ricordi di un suo profondo stato temporaneo. Avevano una forza e una delicatezza nel tratto che mi colpì… immediatamente! Sentivo una forte affinità con quel suo modo di disegnare così spontaneo e privo di ripensamenti. Ho capito che avevo davanti a me un’artista e non solamente una brava disegnatrice. Certo… per quanto tale ogni artista ha bisogno di capire, di osservare a fondo e scoprire i limiti e le potenzialità delle proprie capacità come anche della propria indole.
A me che ne sono innamorato ormai da tempo, appare chiaro che Flaminia Verdoni abbia fatto e stia facendo un bellissimo percorso di crescita lungo questa ripida e a volte ingiusta, putrida strada che è quella dell’arte e della sua insofferente spada chiamata tempo. Non lo dico per giustificare qualcosa, ma perchè lo vivo e la vivo, tutti i giorni! E lei disegnava, non smetteva di disegnare e talvolta colorava ad acquarello quelle masse scarne, quei segni malinconici, quello spazio pieno di un vuoto che ho capito io stesso volessi varcare e intendere a fondo. Volevo comprenderla al meglio, volevo comprendere il fatto di non poterla ancora comprendere. Sembravano disegni dell’esistenza… la sua, la stessa che con il suo fascino ha inghiottito anche le mie lacrime. E poi arrivò la Pittura. I contorni divennero montagne, i centri dei crateri e le sfumature delle macchie. I corpi tremanti sulla tela, da embrioni, iniziarono a privarsi poco a poco di loro stessi, occupando, in una specie di danza, la superficie. Eppure, per quanto più allegre di prima, quelle figure non smisero mai di trasudare ferite, non smisero di sperare e di esigere un movimento migliore. E continuano a cercarlo tutt’ora, si aggrappano alla mano di lei come un bambino al seno della propria madre, assorbono energia e poi piangono talvolta quando vengono colpiti dalla spatola e immediatamente dopo assorbono quel loro dolore nella vivacità di una carezza, quella del pennello… e mentre cercano lo sguardo dell’artista, in quel momento, esse stesse perdono il proprio (in alcuni casi, perdendo persino la “testa”). Rimane cosìt solo il corpo, talvolta mutilato e talvolta più completo di prima. Detto ciò, sono contento di essere anche io, come lo è stata lei per me un anno fa, tra i curatori della mostra personale di Flaminia Verdoni, la prima di una lunga serie che confido arrivà e che si impronterà con solidità tanto nella vita quanto nella ricerca. Vita e ricerca sono, in fondo, gli elementi fondamentali dell’Arte.