Antonella Giannaccaro

Di quello che un artista rivela agli altri, prima che a sé stesso. 

Nel testo «Le passeggiate del sognatore solitario», il filosofo e scrittore Jean-Jacques Rousseau regala sin da subito la propria visione circa il “sentimento dell’esistenza”; egli dice che “studiare gli uomini significa prima di tutto osservare ed esplorare sé stessi”. Mi è impossibile non partire, in questa mia riflessione, dalle parole del filosofo illuminista per descrivere l’intenso lavoro di Flaminia Verdoni. 

Osservando le sue opere, salta subito all’occhio l’idea che l’artista ha del concetto di conoscenza del sé: concetto che si vede maturato tramite un lungo percorso di ricerca e solitudine, sperimentata non come qualcosa di terribile, ma come tappa felice in cui sostare e guardarsi intorno, nello smisurato paesaggio che ospitiamo nei nostri involucri umani di carne, spirito e psiche.

E cosa potremmo trovarvi? Cosa suggerisce una prima percezione dell’opera, il primo sguardo a soffermarsi su tela Una sperimentazione perturbante, la dimensione dell’intelletto che gioca tra il soggettivo e l’universale ma con gravità, emergendo con una nuova sfumatura della misura dell’uomo e del suo stare in terra, in una coincidenza tra esperienza estatica ed esperienza esteticaMa “l’arte decide la nostra identità: chi la produce cerca sempre uno specchio, un qualcosa in cui rivedersi”, come riporta Michelangelo Pistoletto. Per questo, occorre fare un ulteriore passo perché possa trasparire, attraverso la pennellata di superficie, il ritratto della giovane artista.

Tradisce il tratto quasi d’impressione, nel racconto di una riflessione animata, pluriforme, che non è solo rielaborazione del personale vissuto ma anzi, sublima l’esperienza d’individuo arrivando a toccare corde ancestrali, che appartengono all’intera umanità. Dal pensiero lento si arriva così a un’azione veloce, con uno studio anatomico accuratissimo che concede una destrutturazione del figurativo (che pure rimane molto potente), in una danza dell’uno e dei pochi che hanno in sé il senso del tutto. E qui si scompongono i corpi, perché è la Verdoni che si scompone, che si è scomposta ma per produrre materiale nuovo, in una rigenerazione che non è solo della carne ma dello spirito, come approdata a un concetto di “partecipazione mistica” che racconta di un sé multiplo eppure singolarissimo.

Vi è, nell’artista, una conoscenza peculiare dell’anatomia femminile – la propria, e quella altrui – tale che le linee non occorrono più, l’insicurezza del limite del corpo non ha più ragion d’essere: sono i colpi di colori, delicatissimi ma esplodenti, a ricreare la figura fatta dell’uno e della moltitudine.

Ed è qui che possiamo intravedere il pensiero che ha in sé, superato lo scoglio della figura, un racconto che contiene il simbolismo universale, all’interno di una psiche sublimata e fatta di primordiale.

L’artista è donna, e traduce la prima donna che contiene la trascendenza del nudo, l’archetipo riscoperto e rivelato all’osservatore tramite la conoscenza della materia pittorica ma in un modo nuovo, che ha del primitivo la perdita dei contorni, la fusione delle immagini fino a giungere all’idea archetipica del femminile e dei corpi avviluppati in danza fragile e solidissima. Ma torniamo al particolare da cui parte questa produzione, che è un rivelarsi a sé, un inconsapevole scoprirsi che rimane fotografato su tela, e si mostra inatteso e fremente. C’è un movimento continuo, una eco che arriva da lontano, che ben si presta a un’analisi dell’identità che si fa epifanica, rivelata dall’autrice all’autrice stessa. Perché la domanda principe, quella che dà il via alla ricerca e che si risolve in ogni singolo stralcio pittorico – e che rende questi quadri profondamente saggi – è una, e una sola.

"Chi sono io?"

E in quell’io è racchiuso il mondo intero. Qui è contenuta la radice, il contrasto tra il credere di essere qualcosa e il mettere in atto l’essenza stessa. Lo psichiatra Carl G. Jung rivela che tanto più da vicino si esaminano le idee e le cose, tanto più impreciso diventa il loro significato. Qui, nel congedo temporaneo di una comprensione che sia razionale, scopriamo che la narrazione interna necessita di archetipi, perché diventi narrazione collettiva. Ma se “le forme archetipiche sono manifestazioni emotive tutt’altro che statiche, quanto piuttosto [sono] fattori dinamici e possiedono un’energia che porta a un senso collettivo, che coincide con la possibilità dell’esistenza di un’immagine collettiva”,

cosa va a sanare la frattura che intercorre fra noi, la rivelazione dell’archetipo e l’ego?

Credo che l’opera della Verdoni suggerisca una risposta tramite il senso del sacro, che qui esplode con veemenza eppure sottile delicatezza. L’uterino spazio in cui sono calate le figure, fatte di natura e di spirito, mitiga e dona sollievo al circolare dei colori, al sangue che sgorga e rimane impresso, perché in esso si annuncia la totalità della vita. L’eros viene evocato e osserva placidamente il proprio versante complementare, un thanatos che non ha bisogno di disarticolazione della figura (non vi è rottura anatomica come nelle forme umane e disgregate di Egon Schiele). La pittura è matura, il suo farsi non si muove intorno a un disagio interiore: l’abitante dell’arte non descrive una totalità infranta poiché l’io non è frantumato; anzi, la quiete dei molti si trova qui, fissata in forma tanto morbida quanto struggente.

L’identità dell’individuo non è più divisa nell’ampio repertorio di opposizioni, proprie del carattere della nostra specie: il nucleo profondo dell’esperienza umana si concede, nella Verdoni, a una fusione del particolarismo delle diversità prima sconnesse e ora ricomposte nella fortissima pulsione psichica dell’artista, in una coscienza della conoscenza che è chiaro sintomo di uno squarcio che sta venendosi a formare, tra il racconto dell’opera e l’osservatore. Perché non solo a chi crea è dato il privilegio della scoperta, ma anche e soprattutto a chi osserva, che si fa antenna ricevente di una nudità delicatissima ma che affonda le proprie radici nella narrazione dell’universo.

Antonella Giannaccaro

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