Ginestra Bacchio

Amputare corpi, trasfigurarli e tacerne il mistero. Tacerne in parte, in parte no. Mettere in scena il mistero di un corpo. Ritrarne l’oscenità. Durante le tragedie greche le scene più esposte, quelle che maggiormente si accostavano a rivelare i segreti della vita e della morte,  non venivano rappresentate direttamente sul palcoscenico, solo le voci degli attori si continuavano a udire. Risulta interessante, in questo contesto, fare richiamo all’interpretazione che Carmelo Bene , in maniera tanto suggestiva quanto poco veritiera, dette – secondo il famoso aneddoto –  del termine osceno da lui fatto appunto risalire all’usanza greca appena descritta del porre “fuori scena” (“os skené”) tutto ciò che minacciava di scavalcare la soglia del distanziabile.

Il processo di guarigione e di catarsi in atto dall'artista. di cui queste sue opere sono la testimonianza, ha come suo oggetto/soggetto dell'elezione il corpo umano e le sue fatiche.


Impossibile non richiamarsi alla Genesi. Impossibile anche, in questo scaso, non tener conto che lo sguardo dell’artista è femminile. Dopo la cacciata dal Paradiso terrestre la donna ha scoperto il dolore e la vergogna di possedere un corpo. Ma quella stessa tomba-galera, la cui stessa coscienza è il frutto di un peccato – immaginario, certo,  ma non per questo meno indelebile e gravoso, è ancora grembo di madre.  L’universalità dell’operare dell’artista sta nell’esprimere tramite la rappresentazione questa ambiguità della carne. Ciò che è sacro qui viene esposto soprattutto in questo preciso senso: ciò che la carne ha di scandaloso interessa all’artista, ciò che la carne ha di miracoloso interessa all’artista.. 

Nel suo riuscir a  riprodurre  la pesantezza delle membra e nel modo in cui queste vengono collocate nello spazio, alcuni quadri possono ricordare Maria Lassnig e la sua opera, ma senza la placida rassegnazione presente in quest’ultima. 

La raffigurazione è lotta e rimane per ciò appesa ad un filo. La cromia tenue, il predominio del cutaneo, rendono astratta la rappresentazione. La pelle è ciò che ci tiene insieme, che dà sostegno e forma all’eterogeneità organica che ci abita. Ma subito la pesantezza dei corpi, la loro goffaggine, fa ripiombare l’insieme nella caoticità della materia. Il colore è impastato. È una lotta per la vita che conduce alla morte il soggetto. Due corpi femminili, una danza tetra. Poi il soggetto cambia, o meglio, come la luna ci mostra l’altra sia faccia. È una lotta di amore che conduce alla vita. Corpi putridi e deformi sono in grado di operare una sintesi. Pose ancestrali: la schiena inarcata della partoriente, la posizione fetale. Femminile, non per vocazione ma per ovvia costruzione, lo sguardo dell’artista ci porta ad arrestarci sul continuo mutamento, sulla figura del doppio, sull’indefinitezza di un corpo.

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